Il giorno in cui Craig Breen ci ha lasciato senza parole

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Damiano Poltronieri

A volte nella vita mi sono chiesto “è un buon giorno per morire?”, capita quando ripensi al fatto che ogni giorno, inconsciamente rischiamo la vita in mille modi diversi.

Poi penso alle persone che muoiono improvvisamente, chissà se anche a loro è capitato di pensare, mentre si alzavano dal letto e si infilavano le pantofole, “oggi è una buona giornata per morire?”. Perché la domanda sottintesa è “c’è un giorno migliore di altri per lasciare questa vita?”

Sono giorni all’apparenza normali, ti vesti per andare a fare il tuo lavoro, magari il lavoro che hai sognato di fare per tanti anni, un lavoro pericoloso a volte, ma proprio per questo sei un po’ più abituato ad andare vicino alla morte, sempre ad un passo di distanza ma consapevole che il “convitato di pietra”, quello che nessuno nomina è lì con te, ormai potresti sentirti quasi amico della morte.

Per Craig Breen questa era la normalità come lo è per tutti i piloti di rally, soprattutto per chi corre a livello mondiale con le migliori vetture al mondo.
Migliori, sì, perché sono i mezzi meccanici più avanzati su cui si possa salire, anche per quanto riguarda la sicurezza, ogni tipo di impatto è stato analizzato e previsto, per poter allontanare sempre di più la possibilità che qualcuno si faccia del male, facendo il proprio lavoro, il proprio sport preferito.

Una volta nella vita quel giorno arriva, sali in auto e tu non lo sai… parli con l’ingegnere, saluti un meccanico, dici le solite parole di circostanza, o magari le dici a te stesso: “ancora qualche giro e poi andiamo a mangiare”, Giovedì 13 aprile 2023 ore 12:40.

Una serie di piccole cose si allineano, il senso di marcia, una staccata leggermente diversa, un poco di ghiaia portata da un taglio, una staccionata che stava lì immobile da anni, quando tutto si allinea nel verso sbagliato diventa impossibile cambiare il corso degli eventi.

Lui lo sapeva, gli era già successo, indelebili quelle immagini dall’elicottero alla Targa Florio, un dolore immane che lo aveva segnato profondamente, poi piano piano era tornato al massimo livello ed era riuscito a costruirsi una carriera nel mondiale rally. Non so dire se sia mai riuscito a dimenticare quel momento ma non credo si possa mai dimenticare quanto sia doloroso perdere un amico accanto a te. Chissà se per un attimo ha ripensato a Gareth.

Forse non esistono giorni buoni o meno buoni per morire, anche se io credo di si, forse esiste un prima e un dopo, il prima quando pensi che nella vita ci sono alti e bassi, gare buone e gare meno buone, ci sono gli obiettivi che vuoi raggiungere, le “cose che devi fare” per le quali ti dimentichi che stai, in effetti, rischiando, almeno in parte, la vita.

Poi c’è il dopo. Alcuni cinicamente dicono che il dopo è tutto a carico degli altri e magari vivono più serenamente, non so che tipo di persona fosse Craig, cosa ne pensasse di queste cose, ma posso immaginare il dopo, il vuoto che lascia, nella sua famiglia e nelle persone a lui più vicine. Il vuoto, come ha detto Ott Tanak, di non poter più ricevere un suo messaggio, un abbraccio o un sorriso.

Poi ci siamo noi, appassionati di questo sport, e lo sappiamo che di rally si può anche morire, ma non lo vogliamo accettare e quando la realtà si incarica di ricordarcelo rimaniamo sempre senza parole, per noi appassionati quando accadono queste cose non importa più quanti titoli abbia vinto, quante gare abbia perso o dominato, importa solo che era uno di noi, un rallysta, uno che a fine prova piangeva dalla felicità.
Un appassionato prima che un pilota.
Queste sono le cose che spostano un pilota direttamente nell’olimpo dei rally insieme ai grandi padri di questo sport, nella leggenda.

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